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Il perchè di una
serie di romanzi storici
Non pensate a motivazioni strane. O -al contrario-
talmente poco strane da risultare tanto ovvie
quanto banali o scontate.
Me lo sento chiedere molte volte. E il motivo
principale per cui scrivo romanzi storici è
solo uno: passione. Passione nel ricreare atmosfere
e stili di vita che non esistono più e
basate su ricerche personali o bibliografiche,
passione per dare al lettore ciò che desidera
senza mai cercare d'ingannarlo rifilandogli una
storiella già vista o -peggio- mediocrità
e incongruenze non solo nella trama e nei colpi
di scena, ma soprattutto nelle ricostruzioni e
nella veridicità (o fattibilità)
degli eventi. Il lettore d'oggi non è più
uno stupido babbeo credulone, che ingoia amo e
lenza. E' in media una persona colta, appassionata
di libri, che ama approfondire (dunque attento
ai dettagli). E' uno che per una tal sera sceglie
di leggere un mio libro preferendo qualche pagina
scritta a un programma TV più snello, ma
anche più superficiale. Giustamente non
mi perdonerebbe una mancanza di credibilità
(che è poi una delle doti portanti di un
buon autore di editoria o di cinema) se mettessi
porte alle case nel 1600 a.C. o tendine ricamate
alle finestre nel V sec. Cerco di essere sorprendente
nella trama, magari con la presunzione di poter
insegnare qualcosa facendo divertire: la vita,
il lavoro, sono già abbastanza duri o condizionanti
così come sono; se leggere un libro (tra
l'altro pagato caro) dev'essere una tortura, io
stesso sono il primo a suggerire di dedicarsi
allo sport, alla tele, a una passeggiata magari
in piacevole (o dolce) compagnia. Ne guadagnerete
in salute.
Naturalmente ci sono altre motivazioni secondarie.
<<Bisogna essere pazzi, per fare gli scrittori.
La loro sola compensazione è un'assoluta
libertà. Il loro unico padrone è
la loro anima ed è per questo che hanno
fatto questa scelta, ne sono certo>>. Non
sono parole mie (magari fossi bravo come lui!),
ma del mio ben più illustre collega Roald
Dahl nel suo bellissimo libro per ragazzi 'Boy',
ed. Salani, pag. 183.
Ma il romanzo storico è un convivente difficile.
Pretende. E' restio a capire che siamo nel XXI
secolo. Vuole un linguaggio tutto suo che si adatti
all'epoca di cui si scrive. E tecnicamente questo
vuol dire andare contro natura: ogni frase, ogni
parola, ogni costruzione verbale che lo scrittore
(del giorno d'oggi) deve affrontare, lo porta
a calarsi in una situazione linguistica ben differente
da quella per lui naturale. Ogni dialogo va rivisto,
ripassato al pettine come se lo scrittore fosse
lì, presente in quell'epoca, parlando in
tutt'altro modo, usando vocaboli spesso desueti
(ma non troppi o si cade nel risibile coi lettori
d'oggi), termini astrusi ma riferiti a quell'etnia.
Un esempio? Dimenticatevi il termine 'colossale'
se siete in un'epoca antecedente la Romanità
classica: significa imponente o maestoso, ma deriva
da 'Colosseo'
<<Dopo due ore passate
a scrivere, il romanziere si sente completamente
svuotato. Durante quelle due ore s'è trovato
mille miglia lontano, in un altro luogo, in compagnia
di gente totalmente diversa, e lo sforzo che deve
fare per tornare indietro, a nuoto, nel presente,
è assai grande. E' quasi un trauma. Lo
scrittore esce dal suo studio mezzo inebetito
>>
E' sempre Dahl a dirlo, uno che di queste cose
doveva intendersene.
In tanti mi chiedono consigli o pareri tecnici.
Non è questa la sede per discuterne, ma
ci sarebbe da riempire un saggio per le stampe.
Infine mi sento spesso domandare il perché
dei Celti. E' semplice e complesso da spiegare,
al tempo stesso. Dimostrarvi che con il mio stupore
ho ragione ed ho fatto opera buona nello scegliere
quest'etnìa. La mia perplessità
deriva proprio dalla sorpresa in cui è
intrisa questa domanda di giornalisti, intervistatori,
amici, ecc. Siamo in Italia, sto scrivendo in
italiano, chi legge queste righe dev'essere dunque
come me. Eppure la maggioranza della gente tende
a dimenticare che le origini di chi scrive e di
chi legge sono molto probabilmente celtiche, che
le radici più profonde del suo genoma affondano
proprio in quest'etnia di origine indoeuropea,
che nel 4.000 a.C. mosse in una diaspora che partiva
dalla valle del Danubio per diffondersi in tutta
l'Europa, colonizzandola, accomunandola con usi,
costumi, tradizioni. Naturalmente anche in Italia.
Giunse poi la macchina da guerra ben oliata e
ancor meglio organizzata dei Romani, una cultura
successiva e superiore, che ne ebbe ragione.
L'Europa comunitaria ci sembra una grande conquista
anche se non è nemmeno storia, è
cronaca -talmente è recente- dimenticando
che c'era già qualcosa di simile nei secoli
avanti Cristo. Già al tempo dei faraoni
e delle piramidi egizie, questi Celti proto-europei
costruivano Stonehenge, megaliti e cromlech, organizzavano
società evolute con parità di diritti
per la donna e un moderno divorzio, realizzavano
manufatti e piccoli capolavori d'arte orafa come
ha dimostrato la recente mostra di Palazzo Grassi
a Venezia, amavano e celebravano la natura perché
in simbiosi con essa, con questa madre terra che
oggi per negligente comodità ci scordiamo
di rispettare.
E noi quest'eredità ce la portiamo nel
DNA. Per fortuna. Attenzione a non soffocare certi
ricordi: sono insegnamenti attuali. In fondo siamo
solo ospiti passeggeri di questo splendido pianeta
in moto perpetuo. E noi ci scontriamo troppo spesso
gli uni con gli altri dimenticandocelo; un po'
come un branco di pulci sulla groppa d'un cane
che s'azzannassero a morte per stabilire di chi
è il cane.
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